PEPPINO IL MANDRIANO


Questa è la storia di Peppino il mandriano

un emigrante irpino campano

che pascolava sull’altopiano

avvolto d’inverno nel caldo pastrano

Il padre era stato un eroe partigiano

morì combattendo in un bosco friuliano

La moglie Antonietta ed il figlio mezzano

vendevano bulbi di tulipano

accanto al banco dell’ortolano

durante la festa di San Sebastiano

Aveva un bel sogno lo so pare strano

cantare in un coro da mezzo soprano

Ma i soldi eran pochi e il sogno suo vano

dovette partire ed andare lontano

eran gli anni sessanta e valigia alla mano

tanta gente approdava nella grande Milano

Terza classe per sè e il compare Luciano

ma quel treno era freddo come un transiberiano

Quando poi Monteverde fu abbastanza lontano

In un angolo lui singhiozzò piano piano

Salutato l’amico destinato a Bolzano

si trovò alla stazione proprio in mezzo al baccano

Spaventato e impaurito nel cappotto pacchiano

con lo sguardo cercava chi gli desse una mano

“L’importante mio caro è arrivare a Milano

lì vedrai incontrerai certo un compaesano”

Così disse al paese il fratello Damiano

un fedele devoto bravo e buon parrocchiano

Camminò tutto il giorno e sotto un ippocastano

si fermò a respirare quell’olezzo malsano

Ebbe pena di lui il signor Sagrestano

che gli diede riparo presso un Don Salesiano

Cominciò a lavorare prima da un artigiano

poi passò manovale in cantiere a Rozzano

Il lavoro era duro e altresì disumano

faticava a capire il dialetto padano

Casa sua una baracca senza neanche il metano

l’acqua presa nel secchio dentro un pozzo artesiano

Ma a patire con lui c’era un napoletano

due pugliesi un romano ed un trio veneziano

lavorò qualche mese anche un cuoco emiliano

che gli fece scoprir che cos’è il parmigiano

Dividevano tutto anche l’asciugamano

e i racconti avvincenti del marmista Giuliano

ogni sera narrava dello zio americano

che viveva oltreoceano come un vero sultano

Ma di notte volava con la mente lontano

e sognava appagato l’ombra del melograno

il calor di Antonietta il suo vecchio divano

verdi ulivi ed il giallo dorato del grano

Quanti insulti la sera presso il bar Ambrosiano

gli dicevan mafioso ladro e pure villano

“Ti te se vegniu chi, chi da nun a Milano

torna a cà tua terrun, ti te se n’ africano!!”

rispondeva per tutti “Turi il siciliano”

“sugnu un fiero isolano e sugnu pure italiano!!”

Venne poi ripagato nel suo orgoglio il mandriano

c’era un posto vacante al “Coro Domenicano”

e nei giorni di festa col suo far grossolano

lui cantava felice accompagnato dal piano

Risparmiò e tutto l’anno mangiò vegetariano

ma tornò al suo paese a bordo di un aeroplano!



Scritta da Maria Freda

DEDICATA al mio adorato Papà e al mio amato zio Michele

Un saluto al mio paese

Guardo il mio paese nel suo profilo immerso
sotto il cielo di maggio luminoso e terso
con il sole nelle case e nei cassetti del pane..
si da arie da rapace e guardiano del reame
lo sento di mattina accendere i motori ..
spalancare le giornate alle gioie e ai dolori

Con la luce sulle strade e i bambini a scuola ..
sembra un quadro da rubare .. un aquilone mentre vola
mi ricordo i pomeriggi assolati e lunghi …
con la vita che si apriva in un battito di ali

Eravamo in tanti ad aspettare un treno ..
eravamo amici ed eravamo tutti uguali
anche adesso se ci penso vedo i segni del passato ..
vedo il tempo che ho vissuto e la vita che ho lasciato
vedo il lampo nei suoi occhi e tutto ciò che è stato
sento il suono di campane e ricordo in un minuto

Sul Serro della Croce si facevano le guerre …
le battaglie dei bambini non fanno prigionieri
eravamo cavalieri senza spade ne bandiere ..
con le scarpe prese a rate per i giochi e per le fiere
guardo il mio paese e son curioso di capire
perché mai non si è mai persa quella voglia di tornare
siamo innamorati ancora di quel suono di campane
per un’altro giorno insieme nelle vite ormai lontane

Vito Rorro

Monteverde, paese mio

     Modesto, aggraziato agglomerato,
i mitici tre colli da secoli cavalchi,
in una conca a valle sonnecchi,
il lento fatidico risveglio t’aspetti.

     Quelle viuzze trastullato m’hanno,
per i serri limitrofi scorazzando,
calpestando: violette profumate,
ciclamini e margherite colorate.

      Il tuo stabile e fido abitante,
senza confronti d’altre genti,
insistente in odii permanenti,
per te forse; sempre esistenti.

      La tristezza in ogni dì che passa
il cuor mio riempie d’amarezza,
in quella via Dante ove son nato
il fato mi ha col tempo riportato.

      Ora pero’ in te sono rinato,
quel rimorso l’ ho forse scordato,
riabbracciandomi hai alleviato,
lunghi anni trascorsi d’emigrato.


Tonino Pagnotta

L’Ulivo

Dall’ antichità tramandato,
da rudi stagioni cadenziato,
prezioso, umile e onorato,
in ramoscello di pace elargito.

L’ulivo negli anni sagomato,
dal pio campestre antenato,
a progeniture salvaguardato,
l’eterno profetico spezziato.

L’oleaceo riposa d’inverno,
Il sebo sonnecchia in letargo,
la primavera mira runggente
il risveglio é quasi imminente.

La pianta assetata d’estate,
dignitosa aspetta in postura,
Il passaggio di nubi gonfiate,
da gocce ch’estingue l’arsura.

L’autunno inverte i colori,
dell’olive verdi al violaceo,
ai primi freddi soggiunge,
la raccolta dell’ ovuli maturi.

Pettinata con cura la chioma,
l’ulivo or piange di gioia,
cende a stento il suo frutto
posandolo su reti al disotto.

Le pietanze a render genuine,
al cotidiano i suoi condimenti,
da macine voraci e ruggenti
dorate lacrime d’olio colanti.


Tonino Pagnotta

Monteverde Innevato

Gente meravigliata, stupita, perplessa,
da tetti coperti d’un candido mantello,
dai viali e strettole di neve stracolme,
sull’uscio preoccupato l’anziano ricorda,
un’antica lunga invernata non scorda.

Quel ricordo naviga ora in mente,
da sbarazzino giovinetto redente,
schiamazzando al freddo pungente,
tra amici fra scoscese stradette,
tirandosi l’umide fredde pallette .

La coltre ha riempito le strade,
il passaggio insidioso diventa,
Monteverde é tutto innevato,
l’inverno lontanamente scordato,
riemerge: d’un tratto il passato.

Gli avi dall’acquisita esperienza,
al duro faticoso lavoro abituati,
con perticati d’insaccati pendenti,
di grappoli e frutti secchi stipati,
a trascorrere quelle rudi invernate.

Tonino Pagnotta

Lu karabbutt

Quann jerm angora picc·ninn
lu sierr r la crocj nghianamm,
cert p·sc·cun gruoss truamm
sul avv·ré c· mbr·ssiunamm.

L’ anzian c· cundav·n cert fatt
p nunn j· fa nghianà ngimma r prét,
nuj uagliun captuost e cucciut
mmiezz passamm ind a nu cavut.

Na sera nu vecchj murmuriava
ravé vist ngimma na fundana,
Sand–M·chel l’avess scavata
e lu r·javul ca foss ngiamb·cat.

Sat·na ngiamb·cann s foss
r·rrupat, na vota a p tutt,
rumanenn li riavul a lutt
e lu nom a lu karabbutt.

Appena furnuta l’app·zz·cata
m·ttemm li pier inda la tonza,
lu p·nzier ciavià d·strutt,
la paura v·ngenn r brutt.

Tonin Pagnotta

Gli Anziani

Stanno inerti ma seduti,
gli uni accanto agli altri,
lo sguardo un po’ perduto,
chi sà che stan pensando,
oppure forse solo riposando.

Cosa stanno aspettando?
cio’ che resta di ricordi
son tanti, anni trascorsi
di lavoro e di stenti,
un tantino amareggiati
ma pur sempre contenti.

Piccino badato ieri, adulto
badante oggi, domani sarai
purtroppo solo badato,
da persone d’espressioni
in lingue straniere, d’essere
t’accorgi, l’anziano non di ieri.

Colui che aspetta: l’ esasperato,
piccolissimo sorriso affettuoso,
una parola amica consolatrice,
una carezza da persone vicine,
ma sopratutto quella presenza
di apparescenti figli o parenti.


Tonino Pagnotta
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